S'accabadora

Fino a qualche decennio fa in Sardegna si praticava l'eutanasia.


Era compito di sa femmina accabadora procurare la morte a persone in agonia.
Studi approfonditi e analisi della documentazione rinvenuta presso curie e diocesi sarde e presso musei, hanno accertato la reale esistenza di questa figura.
S'accabadora era una donna che, chiamata dai familiari del malato terminale, provvedeva ad ucciderlo ponendo fine alle sue sofferenze. Un atto pietoso nei confronti del moribondo ma anche un atto necessario alla sopravvivenza dei parenti, soprattutto per le classi sociali meno abbienti: negli stazzi della Gallura e nei piccoli paesi lontani da un medico molti giorni di cavallo, serviva ad evitare lunghe e atroci sofferenze al malato.
Sa femmina accabadora arrivava nella casa del moribondo sempre di notte e, dopo aver fatto uscire i familiari che l’avevano chiamata, entrava nella stanza della morte: la porta si apriva e il moribondo, dal suo letto d’agonia, vedeva entrare sa femmina accabadora vestita di nero, con il viso coperto, e capiva che la sua sofferenza stava per finire.
Il malato veniva soppresso con un cuscino, oppure la donna assestava il colpo de su mazzolu provocando la morte.
S'accabadora andava via in punta di piedi, quasi avesse compiuto una missione, ed i familiari del malato le esprimevano profonda gratitudine per il servizio reso al loro congiunto offrendole prodotti della terra.
Quasi sempre il colpo era diretto alla fronte, da cui, probabilmente, il termine accabadora, dallo (spagnolo?) acabar, terminare, che significa alla lettera dare sul capo. Su mazzolu era una sorta di bastone appositamente costruito e che si puo' vedere nel Museo Etnografico Galluras. E' un ramo di olivastro lungo 40 centimetri e largo 20, con un manico che permette un'impugnatura sicura e precisa. Su mazzolu esistente al museo Galluras e' stato trovato nel 1981: s'accabadora lo aveva nascosto in un muretto a secco vicino a un vecchio stazzo che una volta era la sua casa.
In Sardegna s'accabadora ha esercitato fino a pochi decenni fa, soprattutto nella parte centro-settentrionale dell’isola. Gli ultimi episodi noti di accabbadura avvennero a Luras nel 1929 e a Orgosolo nel 1952. Oltre i casi documentati, moltissimi sono quelli affidati alla trasmissione orale e alle memorie di famiglia. Molti ricordano un nonno o bisnonno che comunque ha avuto a che fare con la signora vestita di nero.
A Luras, in Gallura, s'accabadora uccise un uomo di 70 anni. La donna non fu condannata e il caso fu archiviato. I carabinieri, il Procuratore del Regno di Tempio Pausania e la Chiesa furono concordi che si tratto' di un gesto umanitario. Infatti tutti sapevano e tutti tacevano, nessuna condanna sembra sia stata mai perpetrata nei confronti di questa donna missionaria che si faceva carico materialmente e moralmente di porre fine alle sofferenze del malato.
La sua esistenza e' sempre stata ritenuta un fatto naturale... come esisteva la levatrice che aiutava a nascere, esisteva s'accabadora che aiutava a morire. Si dice addirittura che spesso era la stessa persona e che il suo compito si distinguesse dal colore dell'abito (nero se portava la morte, bianco o chiaro se doveva far nascere una vita).
Questa figura, espressione di un fenomeno socio-culturale e storico e' la pratica dell’eutanasia, nei piccoli paesi rurali della Sardegna e' legata al rapporto che i sardi avevano con la morte. Nella cultura della comunita' sarda, non e' mai esistito una vera paura di fronte agli ultimi istanti della vita dell'uomo. Si puo' anzi dire che i sardi avessero una propria e personale gestione della morte, considerata il naturale ciclo della vita.


Femmina accabadora
da: Wikipedia

Sebbene vi siano una bibliografia e/o dei collegamenti esterni, manca la contestualizzazione delle fonti con note a piè di pagina o altri riferimenti precisi che indichino puntualmente la provenienza delle informazioni. Puoi migliorare questa voce citando le fonti più precisamente. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento.


Con il termine sardo femmina accabadora (s'accabadóra, lett. "colei che finisce", probabilmente dallo spagnolo acabar, "finire", "terminare") si soleva indicare una donna che uccideva persone anziane in condizioni di malattia tali da portare i familiari a richiedere questo servizio di eutanasia. Non c'è unanimità sulla storicità di queste figure, molti antropologi non ritengono infatti siano realmente esistite; in ogni caso si esclude che il fenomeno si sia sviluppato nell'intera Sardegna (avrebbe riguardato alcune subregioni come Marghine, Planargia e Gallura) (vedasi «La mia Sardegna arcaica» in Gazzetta di Parma di giovedì 22 luglio 2010, p. 5).
La pratica non doveva essere retribuita dai parenti dell'anziano poiché il pagare per dare la morte era contrario ai dettami religiosi e della superstizione.
Diverse sono le pratiche di uccisione utilizzate dalla femmina accabadora: si dice che entrasse nella stanza del morente vestita di nero e con il volto coperto, e che lo uccidesse tramite soffocamento con un cuscino, oppure colpendolo sulla fronte tramite un bastone d'olivo (su mazzolu) o dietro la nuca con un colpo secco, o ancora strangolandolo ponendo il collo tra le sue gambe.
Si hanno prove di pratiche della femmina accabadora fino a pochi decenni fa.[senza fonte] Una delle teorie per giustificare questo tipo di pratica è basata sulle difficoltà di spostamento e di sussidio nei tempi passati, per cui nei paesi isolati e molto distanti da qualsiasi ospedale la famiglia di un soggetto anziano non autosufficiente e quindi in bisogno di cure assidue avrebbe avuto numerosi problemi ad assisterlo, dal momento che il lavoro agricolo era l'unica loro possibilità di sussistenza.
Alcuni autori, fra cui l'Alziator, descrivono come strumento principale dell'accabadora non una mazza ma un piccolo giogo in miniatura, da poggiare sotto il cuscino del moribondo al fine di alleviare la sua agonia. Questo si spiega con uno dei motivi principali per cui si credeva che un uomo fosse costretto a subire una lenta e dolorosa agonia in punto di morte: se lo spirito non voleva staccarsi dal corpo era palese la colpa del moribondo, il quale si era macchiato di un crimine vergognoso, aveva bruciato un giogo, o aveva spostato i termini limitari della proprietà altrui, oppure aveva ammazzato un gatto.
Altro rito che veniva compiuto era quello di togliere dalla stanza del moribondo tutte le immagini sacre e tutti gli oggetti a lui cari: si credeva in questo modo di rendere più semplice e meno doloroso il distacco dello spirito dal corpo.
Secondo le riflessioni dell'Alziator il compito dell'accabadora non è tanto quello di mettere fine nel senso letterale del termine alle sofferenze dei moribondi con l'utilizzo di uno strumento palesemente inquietante, quanto quello di cercare di accompagnarli alla fine della loro agonia tramite riti di cui si è sicuramente persa la memoria. Tuttavia lo stesso studioso cagliaritano afferma di muoversi nell'alveo della leggenda e non fornisce prove certe dell'esistenza della "femmina".



“Deu ci sia” l’agabbadora portatrice della buona morte
Sa Femina Agabbadora
L’agabbadora portatrice della buona morte
intervista con Clara Murtas | di Isabella Moroni | 10 maggio, 2010

Presentato a Roma martedì 11 Maggio alle ore 20.00 presso la Casa del Cinema, “Deu ci sia”, il cortometraggio prodotto dalla Ophir Production e scritto e diretto da Gianluigi Tarditi, con Clara Murtas, Mario Olivieri, Clara Farina, Fabio Vannozzi, Carla Orrù, Daniele Meloni Michele Carboni, racconta della “femina agabbadora”, figura assai popolare in Sardegna che si occupava delle nascite, di curare i malati e, quando necessario, di abbreviare la sofferenza dei moribondi.


Uno dei metodi più usati era un colpo alla nuca del moribondo con un martello di olivastro (mazzolu).

Agabbadora - accabadora: dal sardo acabà/agabbare (finire, portare a compimento)
Le origini di questa parola grave e potente anche se letta da un’altra lingua, non sono certe: forse dallo spagnolo “acabàr” che significa finire, terminare, recidere è riferita ad una donna cui spetta il compito di abbreviare le sofferenze di un moribondo.
Perché l’agabbadora è quella figura antica e sacra di colei che dà la morte.
Un personaggio che forse era più diffuso su tutto il territorio di quanto si possa credere, ma che in Sardegna sembra essere stato attivo fino alla metà del secolo scorso.
Il cortometraggio racconta uno spaccato della Sardegna tradizionale, aprendo una finestra sulla vita di una famiglia contadina di fine Ottocento.
Un evento drammatico come la malattia del capofamiglia innesca dinamiche inusuali spezzando le consuetudini di questo microcosmo patriarcale.
Il racconto si sviluppa nel dialogo, a senso unico, tra il capofamiglia, costretto a letto, e i parenti riuniti al suo capezzale.
Questi sfruttano il rito dell’ammentu (in cui tradizionalmente venivano ricordate le colpe al moribondo, in modo che si potesse pentire prima della morte) per dare sfogo ai propri rancori, pensieri e sentimenti che regole e convenzioni sociali avevano impedito di far emergere.
Tutto si consuma in un breve lasso di tempo dove si erge su tutti, con autorevolezza e solitudine, la figura della misteriosa femina agabbadora.
Invece di tentare confronti più o meno legittimi con la realtà contemporanea si è preferito concentrarsi su quello che la possibilità di provocare la morte di un proprio caro sofferente può scatenare all’interno dell’animo umano, svelando ciò che, molto spesso, convenzioni e strutture sociali consolidate impediscono di far emergere: slanci d’amore, vecchi rancori, odi personali, e sempre con una sincerità mai rivelata grazie ad un meccanismo che permette di celare i sentimenti, anche i più cattivi e inconfessabili, nella confortante sicurezza di un rito pieno di misericordia e pietà.
Così come i berbos sardi sono cosa astratta: parole magiche, preghiera che soltanto chi ha il dono di conoscerle può comprendere e pronunciare, così l’Agabbadora è l’unico personaggio che parla in lingua sarda.
Il mistero e l’enigmaticità di questa figura sono così salvaguardati, come pure la distanza che la separa dal resto della comunità.
L’Agabbadora è rispettata, ma destinata ad una vita solitaria, lontana da quella comunità il cui equilibrio poggia così saldamente sulle sue spalle.
Il suo dramma è quello di essere donna e dea allo stesso tempo, ovvero di non essere né questa né quella.
È riverita ma non amata, compresa ma non capita, richiesta ma non desiderata.
A chiunque è riconosciuto il diritto di aver paura, provare pietà, essere confortato e compreso, a chiunque tranen che a lei la femina agabbadora deve confortare, capire e colpire, là dove tutti quanti vorrebbero piangere, chiedere e morire.
Ne parliamo con Clara Murtas alla quale è riservato il ruolo così drammatico e intenso dell’agabbadora
Nella tradizione sarda non è difficile incontrare figure femminili potenti e sacre.
Da quali strutture mitiche provengono?
Come in tutto il mediterraneo e in modo abbastanza marcato in Sardegna, l’influenza delle religioni a sfondo materno ancora si fa sentire in molti aspetti della vita
Il ruolo dell’agabbadora era solo funzionale all’economia delle famiglie o le era destinato anche un compito, per così dire religioso?
Nel ruolo de l’agabbadora ( il termine è gallurese ed è a quest’area che si riferisce il film) si riscontra un misto di praticità e di competenza magico-religiosa come negli antichi sacerdoti-medici o “uomini o donne di medicina”.
L’agabbadora era un personaggio “sospeso” nel tempo e nelle emozioni.
Il rispetto e la necessità sembrano essere gli unici sentimenti che le possono essere tributati.
Eppure, approfondendo la conoscenza di questo personaggio, si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un vero e proprio conflitto fra la devozione popolare e le regole civili.
E’ una lettura possibile?
Naturalmente.
Qual è il tuo rapporto con la Femina agabbadora? Memorie, ricordi, racconti familiari?
Io sono nata e cresciuta a Cagliari e ne ho sentito parlare solo da adulta nell’ambito delle mie ricerche sulle tradizioni popolari.
Della donna sarda che dà la buona morte ne abbiamo cominciato a sentire parlare con il libro di Michela Murgia “accabadora”.
D’improvviso –e proprio in un periodo in cui si dibatte sulla possibilità di accompagnare la morte- questo personaggio si è impossessato di buona parte dell’immaginario collettivo.
Abbiamo forse bisogno di sublimare i nostri dubbi e i nostri tabu?
Ci sono diversi testi che analizzano questa figura e numerose sono le tracce di questa tradizione nei libri dei ricercatori ottocenteschi.
l’elenco è lungo e ti rimando al libro di Dolores Turchi “Ho visto agire s’accabadora” ed.
Iris 2008, oppure G. Murineddu “L’aggabbadora” ed. il filo 2007.
Oggi l’argomento del fine vita è molto dibattuto ed è naturale che si tiri in ballo la tradizione che sotto traccia continua il suo cammino nella storia.
Veniamo al cortometraggio.
Come ti sei preparata ad un’interpretazione così particolare?
Come al solito: cercando di capire come rappresentare un ruolo che esula dalla mia identità ma che comprendo grazie ai miei studi sulle tradizioni e la conoscenza del repertorio verbale e musicale magico-religioso della Sardegna.
Non è stato facile trovare la giusta cifra soprattutto nell’uccisione del moribondo: quando mi sono trovata in mano “sa mazzocca ” (il martello di olivastro) ho avuto un certo disagio, anche perchè colui che ce l’ha prestata ce l’ha garantita come strumento originale del rito.
Perché l’uso della lingua sarda solo per il personaggio dell’agabbadora? Hai dovuto portare avanti una ricerca minuziosa per trovare le parole?
L’uso del sardo era necessario al personaggio de l’aggabbadora per mostrare la sua cittadinanza mitica e lontana nel tempo.
Il testo è stato curato dallo sceneggiatore-regista e dai produttori con la consulenza di un esperto.
Io ho operato una sorta di verifica suggerendo alcuni piccole modifiche che sono state accolte e fornendo alcune testimonianze dirette come per la scena del parto dove abbiamo ricostruito una mia reale esperienza di aiutante durante il parto in casa di una mia amica.
Qual è la cosa più difficile secondo te: uccidere o comprendere pienamente il senso e la portata del destino al quale si viene votati?
Credo che il problema del mondo attuale sia il voler disciplinare tutto il vivere sociale e addirittura personale con regole standard, cosa che risulta molto difficile e direi anche sciocca.
Sappiamo bene che di fronte alle questioni di vita e di morte l’individuo è solo e alla fine decide secondo la sua natura e la sua etica; sempre che abbia una sua individualità.
Il vero problema nasce con la medicina che in assenza di coscienza nel malato insiste con accanimento terapeutico a tenerlo in uno stato di esistenza vegetativa pur sapendo che l’individuo non esiste più.
Quale sarà la volontà di questo Dio tirato in ballo a proposito e a sproposito? Glorificare l’intelligenza umana che sa mantenere in vita i morti o benedire il sentimento di compassione umana che accompagna i vivi verso la fine con cure palliative ?



Sa Femina Agabbadora

la Agabbadòra portatrice della buona morte





La definizione - che trae origine dal sardo acabài/agabbare (a sua volta dallo spagnolo acabàr) ed ha il preciso significato di finire, portare a compimento - è riferita ad una donna cui sarebbe spettato il compito di abbreviare le sofferenze del moribondo quando l'agonia si fosse protratta troppo a lungo, Di compiere, insomma, un atto di pietà.



Il capitano di marina Wiliam Henry Smyth (1828), in un suo diario di viaggio illustrante la situazione della Sardegna dell'epoca, afferma: <>.
Quanto riportato dallo Smyth coincide, come datazione, con le affermazioni dell'abate sardo Vittorio Angius il quale, nel <> (1883), localizzava l'usanza a Bosa dove <> sarebbe cessata a metà del XVIII secolo.
Va segnalata la citazione di una accabadòra nel romanzo storico "Folchetto Malaspina" (edito intorno al 1830) del torinese Carlo Varese, peraltro, non ha mai visitato l'isola e per il suo lavoro si è valso di diversi testi fra cui "La Storia di Sardegna" di Giuseppe Manno.
Anche un'altro scrittore, l'inglese John Warre Tyndale (1849), mostra di credere all'esistenza di questo personaggio che, a suo avviso, potrebbe essere anche di sesso maschile, e addirittura ne amplia le prestazioni comprendendovi la soppressione dei << vecchi malati e inabili>> allo scopo di <>.
Charles Edwards (1889) che identifica <> nella fiducia che i sardi nutrivano verso le fattucchiere ed i santi guaritori, mentre il medico <<è chiamato quasi per formalità sul letto di morte: e anche in questo caso, come pure atto formale, egli può somministrare la dose di olio di ricino che, a quanto mi viene detto, è il rimedio palliativo usato per la maggior parte dei mali>>.
Pure Edwards parla di accabadòres maschili e colloca l'origine del macabro rituale nel III secolo a.C. Nel suo libro "Sardinia and its resources" (1885) anche un'altro scrittore d'oltre Manica, Robert Tennant, sembra credere all'esistenza delle accabadòras.
Padre Antonio Bresciani (1850) riferisce, invece, quanto appreso da parecchi sacerdoti <>.
Una conferma viene da Francesco Poggi (1897) il quale riferisce che <Talvolta anzi la famiglia e i parenti del malato, quando la vedono più di là che di qua, per abbreviargli le sofferenze dell'agonia, si tolgono d'addosso certe relique (rezettas), certi amuleti (pungas) che, secondo loro, avrebbero la virtù di tenerlo in vita dei giorni ancora e recitano magari qualche rosario affinché il poveretto si spicci presto>>.
Altre pratiche per abbreviare l'agonia consistevano nel sistemare immagini sacre dentro il letto del moribondo, collocargli una sedia sotto il letto, mettergli un pettine sotto il cuscino o un minuscolo giogo di buoi sotto il capo, ed altri scongiuri di ogni genere.
Pettine e giogo, che talvolta venivano fatti baciare al moribondo, non dovevano esser bruciati dopo il decesso poiché si credeva che la lunga agonia fosse la punizione per un atto identico compiuto dall'uomo nel corso della sua vita.
Il piemontese Alberto Della Marmora, nel "Viaggio in Sardegna" (1826), afferma testualmente: <Io però non posso nascondere che in alcune zone dell'isola, per abbreviare la fine dei moribondi, venivano incaricate specialmente delle donne; si è dato loro il nome di Accabadura, derivato dal verbo accabare/finire.
Questo resto di barbaria è felicemente scomparso da un centinaio d'anni>>.




Titolo del cortometraggio:
Deu ci sia

Presentato il 14 aprile scorso alla Cineteca Sarda, il cortometraggio Deu ci sia ....


Curato dalla sapiente regia e sceneggiatura di Gianluigi Tarditi, prodotto dalla Ophir Production di Sassari , il corto vede tra gli interpreti Clara Murtas nella parte dell'agabbadora

Clara Farina, Mario Olivieri, Daniele Meloni, Michele Carboni, Carla Orrù, Fabio Vannozzi.
Gianluigi Tarditi affascinato dalla misteriosa figura di sa femina agabbadora ne ha studiato realtà storica e aura leggendaria per trasportarla e renderla fulcro di questo racconto cinematografico che si sviluppa nel dramma di una famiglia sarda di fine ottocento.
Tutto si consuma un un breve lasso di tempo , qundici minuti per spezzare la vita di un uomo e riunire una famiglia al capezzale del morente : un redde rationem crudele dove pietas e justitia si confrontano in un crescendo di pathos che sfiora accenti quasi tolstojani-
La figura della misteriosa agabbadora si erge su tutti con autorevolezza e solitudine : è una donna rispettata ma non certo amata , una "dea ex machina" cui rivolgersi negli estremi della vita , dispensatrice di vita e morte .
A far da colonna sonora, quasi una litanìa, i bellissimi rituali in limba recitati dalla protagonista , cornici nella cornice di una Sardegna aspra e arcaica ancor oggi viva e tutta da scoprire .



femina agabbadora
eutanasia in gallura

Arrivata nella casa dove la malattia stava irrimediabilmente consumando qualcuno, con un colpo preciso di martello al capo poneva fine a tutte le sofferenze.


Chiamata dai familiari del moribondo, tollerata dalle istituzioni e dalla Chiesa, rimossa dalla coscienza e dalla tradizione gallurese.
Nel museo etnografico “Galluras” c’è l’ultimo malteddhu, così si chiama in lurese il martello della femina agabbadòra.
Lo custodisce gelosamente Pier Giacomo Pala, ideatore ed proprietario del museo: ha trovato il martello in uno stazzo.
Un oggetto che certo non tranquillizza. Non è costruito a regola d’arte, più che altro è un ramo di olivastro lungo 42 centimetri e largo 24, con un manico che permette un’impugnatura sicura e precisa.
Lo strumento che amministrava la morte negli stazzi. Suggestione orribile, eppure affascina la figura della donna che sino alla prima metà del Novecento ha aiutato i malati ad evitare una lunga agonia.
«Nel museo " " abbiamo anche altri oggetti rituali che accompagnavano le ultime ore dei malati terminali. Come ad esempio su ghjualèddhu, un piccolo giogo in legno che veniva messo sotto il cuscino del moribondo». La riproduzione del giogo simboleggiava la fine della vita. Staccato dai buoi (la forza che trainava l’aratro e il carro), rappresentava il corpo dell’ammalato, privo di vigore e incapace ormai di assolvere al suo compito.
Ma se su ghjualeddhu aveva un valore simbolico, il martello della femina agabbadòra è un oggetto funzionale e soprattutto, sino alla prima metà del Novecento, funzionante.
L’argomento del martello è stato trattato più volte da antropologi e studiosi di tradizioni popolari.
Uno dei primi a parlarne è Vittorio Angius nel 1832; Zenodoto cita Eschilo che parla delle usanze di una colonia cartaginese in Sardegna: usanze che prevedono il sacrificio degli anziani. Giovanni Lilliu parla della rupe babaieca a Gairo, dove venivano soppressi gli anziani e i malati. Il martello che in Gallura viene chiamato mazzolu ha un corrispondente nel Nuorese, dove viene indicato come mazzoccu, e in Campidano dove invece si usava il termine mazzocca.
La pratica dell’eutanasia “rurale” è legata al rapporto che si aveva in Sardegna con la morte. Dell’argomento si è occupato Alessandro Bucarelli, cagliaritano, ordinario di medicina legale dell’Università di Sassari, aprendo ad Alghero, anni fa, un convegno di medicina necroscopica. «Sì "spiega il docente" in quell’occasione dovevo spiegare perché fosse stata scelta la Sardegna come sede del convegno.
Nell’Isola storicamente c’è stato un rapporto tutto particolare dell’uomo con la morte.
Un atteggiamento che può essere definito realistico. Non è mai esistito nella cultura della comunità sarda un terrore vero e proprio rispetto all’ultimo atto della vita di un uomo. Anzi si può parlare quasi di una gestione della morte.
Il fenomeno della femina agabbadòra, o in logudorese acabbadòra, va inquadrato in questo modo: i familiari si adoperano per evitare che il malato soffra pene atroci e mettono fine alla sua esistenza. Fra l’altro sono venuto a conoscenza degli ultimi episodi in Sardegna di eutanasia, praticata con strumenti come il martello della femina agabbadòra.
Uno nel 1952 a Orgosolo ed un altro, meno recente, che risale al 1929 proprio a Luras.
I carabinieri, nel verbale riguardante quest’ultimo episodio, specificarono che i familiari avevano dato il loro consenso alla soppressione del malato».
Andrea Busia (UNIONE SARDA)






malteddhu (lurese) - mazzolu (gallurese) - mazzoccu (nuorese) - mazzocca (campidano)

Lo strumento tangibile del mistero della vita e della morte in Gallura lo si può trovare (e ammirare, fino ad un certo punto) nel Museo etnografico Galluras "frammenti della civiltà gallurese" del piccolo centro di Luras, in Gallura.


E' un museo come tanti altri, con varietà di oggetti e "documenti", recentemente premiato a livello internazionale, col suo bravo sito Internet, ma anche con qualcosa in più degli altri.
Per rendersene conto non resta che visitarlo.
Il giovane ideatore e direttore del museo, PierGiacomo Pala, non nasconde un certo orgoglio nel mostrare al turista questo misterioso strumento.
E a buon diritto: perché, oggi come oggi, è l'unico esistente in Gallura.
Niente di speciale: un rustico martello di legno d'olivastro stagionato, reso lucido dall'uso e per essere passato negli anni in tante mani.
Ma non è un martello normale costruito da un'artigiano: è un corto spezzone, lungo 42 centimetri e largo 24.
Il manico, corto e robusto, consente una presa sicura per assestare un colpo pesante e deciso.
Veniva usato da li fèmini agabbadòri (sas accabadoras in lingua sarda settentrionale) le donne, cioè, incaricate di "finire" (in spagnolo acabàr) un moribondo che soffriva troppo senza poter morire.
L'abate Vittorio Angius, intorno al 1832, scrive a questo proposito: Accabadoras.
Viene questo vocabolo dal verbo accabare, il quale avendo la sua radice in cabu (capo) darebbe ad intendere 'dare al', o 'dare sul capo'; propriamente "uccidere percuotendo la coppa", e figuratamente 'trarre a capo' o 'condurre a fine qualche bisogna'.




Le Accabadoras star del museo
Scritto da Junfan - Domenica 09 Settembre 2007 13:21

A Luras, in una palazzina del settecento, è custodito il martello della "bona morte"


Luras. "C'era una pietra diversa dalle altre, perfettamente rettangolare, tenuta da un cuneo di granito.
Ho levato tutto: lì, dentro una nicchia ricavata nel muretto a secco attorno a uno stazzo, c'era quello che cercavo da dodici anni. Era un martelletto, legno d'olivastro, liscio e quasi lucido. Ho pensato: Oddio, quante volte sarà stato usato. L'ho abbrancato e sono scappato via".
Quante volte sia stato usato non si sà,certo è che oggi "lu mazzolu" è l'oggetto che più incuriosisce i visitatori del museo etnografico di Luras, una palazzina del Settecento che racconta, lungo l'itinerario delle stanze e delle cantine accuratamente arredate, usi e costumi della Gallura.
Il martello un tempo usato dalla "femina accabadora" - la donna che con un colpo secco sul capo metteva fine all'agonia dei moribondi - è adagiato sul risolvo ricamato di un lenzuolo che impreziosisce l'antico letto della stanza padronale.

"l'ho trovato nel 1993 e sta qui dal '96.
Ma mai come oggi sono state le richieste per poterlo vedere".
Pier Giacomo Pala, 51 anni, appasionato di tradizioni popolari, è il proprietario e il curatore del museo diventato oramai meta imprescindibile per quanti vogliano sapere di più su una delle usanze più affascinanti e inquietanti sulla storia della Sardegna.
"Da pochi mesi a questa parte sono già arrivati una ventina di laureandi che preparano la etsi di laurea proprio su questo argomento e tantissimi - racconta - sono i produttori cinematografici che vorrebbero farne un film e gli scrittori che pensano al soggetto per un romanzo.
Arrivano e chiedono notizie: dove ha trovato il martello, chi era l'ultima accabadora, in che anno è stato fatto l'ultimo rito...".
Mai come oggi il rituale della bona morte , quello che si chiama eutanasia - e che un tempo veniva tollerato dalla chiesa e persino dalla giustizia -, è stato di così stretta attualità.
Grazie a Welby, grazie a Nuvoli, la riflessione sul senso della vita e sulla dignità della sofferenza ha portato un argomento fino ad oggi tabù sulle prime pagine dei giornali, ha scomodato filosofi ed intelletuali, ha fatto adirare vescovi e custodi della dottrina della fede, ha smascherato bigotti e ha fatto ragionare chi non ama il pregiudizio.
"Mai come oggi - ripete il direttore del museo di Luras - tanta gente è arrivata per vedere il martello un tempo usato dall'accabadora e per sapere un pò di più di questa antica usanza".
Nient'altro in Sardegna è coperto da un'omertà più tignosa.
Il rituale - che cominciava quando i familiari del moribondo avvisavano la femina accabadora e finiva quando questa lasciava la casa del lutto - veniva fatto fino agli inizi del Novecento in Gallura e in Barbagia, ma ancora oggi è praticamente impossibile conoscere i nomi delle sacerdotesse della morte.
Non ci è riuscito neanche Franco Fresi, scrittore e studioso di tradizioni popolari, che alla fine degli anni Settanta intervistò il nipote dell'ultima femina aggabbadora della Gallura.
"Era un'uomo che aveva quasi cent'anni e viveva in uno stazzo, su un'altura vicino al mare - racconta -.
Mia nonna, mi disse il vecchio, era l'ultima di quelle donne che portavano consolazione ai malati che desideravano morire e conforto alle loro famiglie.
La chiamavano perchè era decisa e forte: non andava volentieri, ma sapeva di dover fare un'opera buona.
Non ti voglio dire come si chiamava, mi avvertì il vecchio, però ti posso dire che veniva chiamata "Cunsuleddha", proprio perchè era una consolatrice.
Il vecchio racconta che sua nonna, "nonostante la carità che fece per tutta la vita, alla fine soffrì molto per questa sua attività.
Ne abbiamo sofferto tutti in famiglia. E proprio per questo una mia nipote si è fatta suora per espiare".
Quell'uomo, spiega Franco Fresi, sentiva ancora tutto il peso di quella eredità.
Quando gli chiesi se potevo vedere il martello lui non fece una piega.
Nonostante l'età salì come uno scoiattolo su una scala a pioli, arrivato in cima scoperchiò alcune tegole e porto giù una pesante mazzuola di legno coperta di fuliggine.
Ci soffio sopra e, svanita la nuvoletta, mi colpì la lucentezza del martelletto, come quella di un oggetto levigato dall'uso.
Purtroppo ebbi la cattiva idea di tentare di fotografarlo.
Il vecchio si infuriò e lo lanciò lontano, in fondo alla vallata.
Sono tornato diverse volte , per tentare di recuperare la mazzuola.
tutto inutile, forse il vecchio, che conosceva quei luoghi meglio di me, se l'era già ripresa".
In Gallura l'ultimo rituale fu fatto a Luras, nel 1929, quando la femina aggabbadora accompagnò nell'ultimo viaggio un uomo di settant'anni.
La donna, oramai anziana, finì davanti al procuratore del regno, mail caso venne presto archiviato.
E' questo il fascicolo che, oramai da anni, studenti universitari e studiosi di tradizioni popolari cercano disperatamente tra i faldoni polverosì dell'archivio del tribunale di Tempio Pausania.
Tra quelle carte ci dovrebbe essere anche il verbale dei carabinieriche, dopo aver interrogato i familiari del morto e diversi paesani scrissero: è appurato che i parenti del malato hanno datto il loro consenso.
A Orgosolo, invece, l'episodio più recente in assoluto: si sa che avvenne nel 1952, il resto è coperto dal silenzio più ostinato.
Nel Nuorese, comunque erano di Ottana le accabadoras più ricercate.
Venivano chiamate in tutti i paesi del circondario e loro - femmine alte, magre, il colorito giallo per la malaria - arrivavano e salutavano con un cenno del capo.
Formule e gesti antichi, sempre uguali.
Deu ci siada, sussurrava l'accabadora. Che Dio sia qui.
Arrivava sempre di notte e, dopo essersi assicurata che tutti erano d'accordo, veniva subito accompagnata al capezzale del moribondo.
Con un gesto mandava via i parenti, chiudeva la porta, si faceva il segno della croce e, afferrato il martello che nascondeva sotto lo scialle, con un solo colpo sulla nuca del malato finiva il suo compito.
Riapriva la porta, annunciava che quella era la casa del lutto, e andava via.
Dall'Unione Sarda del 21/08/2007


L’ENIGMA DI “SA FEMINA AGABBADORA” PER UN AMARO RITRATTO DI FAMIGLIA
E CHE “DEU CI SIA”
IL CORTOMETRAGGIO DI GIANLUCA TARDITI
Scritto da: Tottus in Pari in Cinema

Segreti di famiglia in un crescendo di “sussurri e grida”, preludio al buio, nel fluire inarrestabile delle esistenze in “Deu ci sia”, il cortometraggio scritto e diretto da Gianluigi Tarditi (che firma anche le musiche) ispirato a sa Femina Agabbadora, prodotto dalla sassarese (con base a Roma e respiro internazionale) Ophir Production, presentato in anteprima alla Società Umanitaria – Cineteca Sarda di Cagliari.


Così il regista, studi alla New York Film Academy, esperienze nel cinema indipendente e sui set italiani di Luca Miniero e Paolo Genovese, Lamberto Bava e Abel Ferrara, già autore di short stories nel segno della settima arte come “Pisa” e “Charles Delano”, racconta la genesi del film: “Deu ci sia” è il frutto di una seduzione, mi ha affascinato la figura di sa Femina agabbadora, avvolta nella leggenda ma significativa al di là della documentazione storica come parte di un immaginario collettivo. Nel corto diventa il motore della storia incentrata sul dramma di una famiglia costretta ad affrontare la morte imminente e soprattutto le sofferenze per la malattia di una persona cara.
Come dar corpo al sogno, forse l’incubo di colei che pone fine (drasticamente) al dolore terreno? Sullo schermo s’Agabbadora ha il volto intenso di Clara Murtas, che racchiude la forza ma anche la fragilità e il mistero di questa donna, rispettata ma non amata. Una distanza che ho voluto sottolineare attraverso le parole, inserendo una nota antistorica: è l’unica che parli in limba, gli altri le rispondono in italiano, proprio per dare l’idea di questo personaggio che viene capito ma non compreso. E’ una figura che vive ai margini, custode dei segreti della nascita e della morte: viene chiamata perché serve, ma la sua sapienza incute un certo timore. La sua presenza si avverte in tutto il film: apre e chiude una trama fatta di ricordi e sentimenti contrastanti dei parenti riuniti intorno al morente.
Quindi le emozioni in primo piano? Il racconto si sviluppa nel dialogo, a senso unico perché l’infermo non può rispondere, tra il capofamiglia costretto a letto e la moglie, i figli, il fratello e la nuora, nell’alternarsi di narrazione lineare e flashback: ho utilizzato il rito dell’ammentus, in cui si ricordavano le colpe per ottenere il perdono divino, per far vomitare ai personaggi i veleni, i rancori non sopiti. Affiorano le cose mai dette in una sorta di confessione alla rovescia: sono i parenti che denunciano ingiustizie e soprusi, tradimenti e perfino delitti davanti all’uomo che pure muto e prossimo alla fine, conserva il suo ruolo e il suo potere. Se poi a muovere i personaggi sia un desiderio di aiutare o di vendicarsi, se il voler bene sia una maschera, sarà lo spettatore a deciderlo: proprio quest’ambiguità degli affetti è il fulcro del cortometraggio.
Dove e quando si svolge la storia descritta in “Deu ci sia”? La vicenda è ambientata in una Sardegna di fine Ottocento, è un film “in costume” ma non un documentario: quello che con la collaborazione preziosa della costumista Stefania Grilli ho cercato di preservare è stata la realtà di certe atmosfere, ma senza eccessi filologici, prendendomi anche delle libertà. In particolare per la lingua: è stato girato in Gallura (con l’apporto della STL) con attori provenienti da diverse parti dell’Isola (oltre a Clara Murtas, Clara Farina, Mario Olivieri, Daniele Meloni, Michele Carboni, Carla Orrù), tranne s’agabbadora tutti parlano in un italiano in cui ho voluto (e non è stato facile!) anche le inflessioni sarde; nelle versioni per l’estero probabilmente queste sfumature andranno perse, ma mi è sembrato importante per restituire alla vicenda una sua autenticità.
Dalla teoria alla pratica, dalla poesia al “vile denaro”: i costi? Per l’aspetto finanziario sarebbe meglio chiedere ai produttori: Simone Montaldo e Felicina Della Vecchia. Posso dirle che il corto è costato sui 70mila euro, e per ora abbiamo ottenuto un finanziamento del ministero. So che la Ophir ha fatto richiesta anche alla Regione Sardegna attraverso il bando della Legge Regionale per il Cinema, ma come saprà il meccanismo non è ancora operativo. Girare un film è sicuramente molto impegnativo sul piano economico, ma l’importante è crederci fino in fondo: io non ho scelta, la forma d’espressione a me più congeniale, forse l’unica, è proprio il cinema.


S’accabadora, io l’ho conosciuta!
Scritto da: Anna Maria A. - Quartucciu (CA)

S’accabadora, io l’ho conosciuta!


Eravamo nel 1963 e la pioggia della notte precedente aveva rinfrescato l’aria di quella domenica di fine settembre. Io giocavo con le mie due sorelle nel cortile della casa della mia nonna paterna ad Arixi (microscopico paese agropastorale a circa quaranta km a nord di Cagliari) mentre  aspettavamo il rientro di mio padre, che era andato a comprare il vino da un suo cugino nell’adiacente paese di  Senorbì, per pranzare.
Mio padre allora non muoveva  passo senza la sua fedele Morini 98 e facendosi tardi mia madre cominciò a preoccuparsi. Poiché in casa non c’era il telefono, qualcuno andò a cercarlo lungo la strada per Senorbì giungendo fino al ponte su Riu Arixi.
Grande fu la disperazione quando fu trovata la moto rovesciata sul ponte,  ancora appesa al manubrio la borsa col bottiglione di vino ormai rotto, forse concausa, insieme all’asfalto viscido, della caduta. Bastò guardare oltre il parapetto per scoprire il corpo di mio padre, sul gretto del fiume quasi in secca, immobile.
Erano tempi in cui per far arrivare un’ambulanza o reperire un medico ci volevano tempi biblici, per cui mia nonna, davanti al corpo apparentemente inanimato del figlio disse solo tre parole: “tzerriai a tzia Maria” (chiamate zia Maria).
In Sardegna il termine zia viene rivolto non solo ai parenti ma anche alle donne che per età o saggezza o quant’altro meritano il rispetto della comunità e Tzia Maria aveva il riverente rispetto di tutti.
Quando sentì quel nome mia madre sbiancò in viso, ma non disse una parola, sconvolta dagli avvenimenti che si accavallavano. Tzia Maria arrivò immediatamente: il suo abbigliamento, pur non essendo vedova,  non era diverso da quello di tante donne del paese che afflitte dalla vedovanza erano vestite completamente di nero, così come era nero il manto che tenevano sul capo.
Al suo passare qualcuno si faceva frettolosamente il segno della croce, non so dire se per invocare la protezione divina contro di lei o perché essa stessa fosse considerata divina. Di fatto, davanti a problemi non risolvibili da altri, era lei che veniva interpellata…e lei c’era sempre…
Fece trasportare mio padre in casa e lo fece sistemare nel letto matrimoniale: poi mandò via tutti, tranne mia nonna, e si mise a parlare sottovoce, mia nonna fece altrettanto, ma in modo + fievole: oltre la porta che ci separava da loro arrivava solo una specie di brusio, un amalgama di parole incomprensibili che a volte salivano di tono e altre volte scendevano.
Tutto durò meno di mezz’ora che a tutti parve un’eternità, poi uscirono… L’espressione del viso di Tzia Maria era imperscrutabile, anche quando mi vide e chiese a mia madre: “Est sa manna?“ (è la grande?...inteso come figlia maggiore). Mia madre rispose ormai terrorizzata:”Eja”. Nient’altro fu detto…  Tzia Maria uscì e fu l’unica volta che la vidi…
Rimase per tutta la casa un alone di magia, di mistero, di preoccupazione, di speranza, di fede e, nonostante io avessi solo sette anni ed il tempo abbia smussato i ricordi, qualcosa di quella “magia” riesco ancora a percepirla anche adesso mentre scrivo questa memoria.
Arrivò più tardi un’ambulanza da Cagliari e portò mio padre in ospedale… dissero che era stato miracolato, che i cespugli avevano attutito la caduta, che era miracolato da Sant’Arega (quel giorno veniva appunto festeggiata Santa Greca, seconda per importanza, nel Campidano di Cagliari, solo a Sant’Efisio), ma per molti di noi fu solo l’intervento di Tzia Maria, personaggio dalle mille sfaccettature; ostetrica nei parti + difficili, figura magica per levare il “malocchio”, guaritrice ante litteram e, in ultima res, donna pietosa “procuratrice di pace” per chi era già morto pur respirando ancora…
Tzia Maria si è spenta qualche anno fa, prima di compiere i suoi cento anni e ancora oggi in pochi hanno il coraggio di parlare di lei usando il nome che la distingueva dalle altre tzie: S’accabadora!
Quartucciu (CA) 31/08/2010
Anna Maria   (col gentile contributo rievocativo di mia madre che ha supplito alla mia carenza di ricordi)